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Il primo capitolo di Evilove e il Cacciatore Solitario in anteprima


Il primo capitolo di Evilove e il Cacciatore Solitario in anteprima


copertina evilove e il cacciatore solitario

Capitolo 1

LA LUNA VIOLA



Una falce di luna viola illuminava i tetti di Silvershade, forse la cittadina più anonima del Maine, dove la vita era scandita tra casa, lavoro, chiacchiere e poco altro, come aveva sempre fatto. Una luna viola in una notte di maggio? Alcuni l’avrebbero considerata una cosa ‘normale, che capita ogni tanto’, ma come aveva detto qualche radio e tv locale, quel viola era davvero insolito.


Cri-cri, cri-cri.


La foresta di Silvershade, oltre la statale, era sempre stata considerata un luogo misterioso: oltre alle solite dicerie sui fantasmi che la infestavano, alcune voci raccontavano addirittura che certe persone ci si erano risvegliate dentro, con i vestiti strappati, senza ricordarsi il perché.

Quella notte il vento faceva vorticare le foglie sul terreno e trasportava il profumo della resina. Verso mezzanotte, con gli abitanti della città già a letto da un pezzo, le nuvole coprirono la falce di luna viola, e le chiome diventarono scure.


Cri-cri, cri-cri.


Bibar stava correndo tra gli alberi così veloce che non aveva più fiato nei polmoni, e puntava la lanterna dritta davanti a sé. Era fregato. «Ci mancava solo questa. Dove diamine è?» 

Poi, finalmente, eccola: una nebbiolina aveva cominciato a concentrarsi sul terreno. Si formò un vortice che esplose in un raggio viola verso il cielo, senza fare alcun rumore. Se un abitante di Silvershade si fosse affacciato dalla finestra in quel momento, avrebbe immaginato che nel mezzo della foresta qualcuno avesse acceso un faro e lo avesse puntato verso la luna.

Le gambette gli stavano cedendo, i polmoni chiedevano a gran voce di essere riempiti. L’unica soluzione fu lasciarsi cadere su una grossa roccia lì vicino. 

«Eccoti» bofonchiò illuminato dalla luce del raggio. «Mi hai fatto quasi crepare, con ‘sta corsa».

Aveva ancora il fiatone ed era così sporco di terra che se fosse andato in giro per Silvershade lo avrebbero di sicuro definito ‘un mezzo pazzo, uno di quelli che cambi marciapiede se lo incroci in città’, anche perché aveva preso l’abitudine di raschiarsi l’interno dell’orecchio con il mignolo quando lo facevano innervosire, e non riusciva a togliersi il vizio di spalmarsi il cerume sul giaccone. La signora Johnson sarebbe rabbrividita alla vista di quel gesto così poco elegante.


Cri-cri, cri-cri.


Bibar sbadigliò, con le cicatrici in faccia che si tiravano tutte. «Ma guarda se dovevi farmi perdere tutto questo tempo». Un rumore dietro di lui lo fece voltare di scatto. Faceva quel mestiere da tutta una vita, e il suo sistema nervoso era ormai andato. 


Cri-cri, cri-cri.


Tornò a fissare il raggio arrotolandosi i capelli con il dito. Il suo orologio aveva tutte e venti le lancette che roteavano impazzite. Era già in ritardo sulla tabella di marcia. Prese fiato e alzò la lanterna come aveva già fatto migliaia di volte negli ultimi cento anni. Era arrivata l’ora di andare in pensione? Non era un’idea così malvagia. In effetti cosa ci sarebbe stato di più bello che starsene disteso nella Spiaggia dei Lamenti a farsi un bicchierino?

«Gengur…» Il raggio viola si era gonfiato, sprizzava scintille, e ora assomigliava più che altro a un mulinello dorato spesso quanto il tronco di un albero. Con la mano spazzò via una scintilla dal giaccone e ne allontanò un’altra che gli aveva sfiorato il volto. «Rabib, se scopro che sei stato tu a farmi uno dei tuoi scherzi…» Raccolse in fretta la lanterna, la puntò al cielo con la schiena dritta e prese di nuovo fiato.


«Gengur í gegnum í bláa vídd».


Il raggio venne assorbito nel terreno, e tra centinaia di spruzzi di fango emerse un globo gelatinoso, grande giusto da farci stare una persona rannicchiata dentro. In quel momento la foresta si scosse tutta e Bibar ruzzolò a terra con la lanterna che volava poco più in là. Nella sua carriera ne aveva viste di cotte e di crude, ma mai una scena assurda come quella, nemmeno quella volta in cui si era ritrovato a lavorare nel deserto australiano senza neppure il suo orologio.

Si rialzò in piedi. «Basta, cosa diamine deve succedere ancora?»

Laggiù, oltre gli alberi, gli abitanti di Silvershade sembravano non essersi accorti di nulla: le luci delle finestre erano ancora tutte spente. Era paradossale come gli Esseri Umani dessero peso a cose futili senza riuscire ad accorgersi di avvenimenti così plateali sotto il loro naso.

Era tornato il silenzio. Il globo aveva iniziato a contrarsi, ed esplose con un plop. Bibar guardava il ragazzo che giaceva nudo in mezzo alla melma gelatinosa. Avrà avuto su per giù sedici anni, la pelle chiara coperta da un denso strato vischioso e i capelli castani tutti impastati. Non si muoveva.

«Numero 1305? Asher?» 

Il ragazzo cominciò a tastarsi la testa.

«Asher, giusto?» chiese di nuovo Bibar con lo sguardo sul foglietto stracciato che teneva in tasca. Non poteva certo ricordarsi a memoria il nome di ogni singolo Slayer che faceva Trapassare sulla Terra. «Ma sei sordo?»

Nessuna reazione.

Gli mollò un calcio sul petto. Aveva solo voglia di un letto caldo e un bicchiere di whisky, e tirare calci era l’unica cosa che lo faceva calmare. «Datti una mossa. Come ti è saltato in mente di non Trapassare al lago? Non ne posso più delle vostre idiozie».

Il ragazzo tossì e si alzò in piedi con le gambe che tremavano. Appena aprì gli occhi, Bibar fece un passo indietro. Aveva già fatto Trapassare migliaia di Slayer, ma nessuno di loro aveva mai avuto gli occhi di quell’orribile giallo oro. Nessuno.

«Ma come diamine ha fatto il Tenente 13 a scegliere uno così poco sveglio».

Gli occhi del ragazzo tremarono sotto la luce della lanterna.

«Allora? Sei pure muto? Ascoltami bene, 1305. Se non eri pronto a venire in Missione sulla Terra, non è certo un mio problema». Tirò fuori dalla tasca del giaccone la catenina con la Sfera, sussurrò la formula per svegliarla e una fiammella dorata si accese al suo interno. 

Aveva passato gli ultimi otto giorni a forgiarla, spingendosi fino alla Steppa Glaciale per recuperare i migliori materiali, e si era addirittura vantato con i Superiori che quella fosse una delle sue Sfere meglio riuscite, e ora quell’orribile fiammella dorata vanificava tutti gli sforzi. 

«T-tu sei 1399?» chiese il ragazzo. Si stava ancora massaggiando la testa guardandosi intorno.

«Allora ce l’hai la lingua. No, idiota. Non sono il tuo amichetto. Lui è Trapassato al lago, come avresti dovuto fare anche tu. Avanti, vai da quella parte. Devi sbrigarti a raggiungerlo» e puntò la lanterna oltre gli alberi, ma il ragazzo cominciò fissare il suo giaccone imbottito, scosso dai brividi. «Ti piace, eh? Scordatelo. Vedi di darti una mossa, che Orbus ti sta aspettando. Deve darti una cosa molto importante, e ti darà anche dei vestiti, se sei fortunato» e fece per allontanarsi. 

«O-orbus…»

«Comunque io sono Mastro Bibar, il famoso Forgiatore» aggiunse gonfiando il petto, e la schiena fece quello strano scricchiolio con cui aveva imparato a convivere. «Quegli imbecilli al tuo Accampamento ti avranno raccontato di me, no?» 

Niente.

Bibar prese a masticarsi quel poco che gli rimaneva dell’unghia del pollice. «Sai che ti dico? Arrangiati. Non sai quanto sono stanco di farvi Trapassare». Bibar lasciò cadere la catenina con la Sfera nella melma. «Questa tienitela stretta. Se la perdi o la rompi, sei morto, capito?» Diede una seconda occhiata all’orologio, lo aspettava un altro Trapasso in un’isola remota del Giappone, e agitò la lanterna, con il ragazzo che lo fissava sbattendo le palpebre. 


Cri-cri, cri-cri.


Asher tenne gli occhi fissi sull’anziano finché la luce della sua lanterna non fu inghiottita dalle tenebre. Era rimasto solo. Si accasciò in quella melma tiepida che odorava di sangue, e alzò lo sguardo verso le stelle e la falce di luna.


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